Cari
lettori, dalle pagine di questo blog vorrei fare una proposta rivolta a tutti.
La proposta è questa: cambiamo il nostro modo di parlare degli stranieri. Non
c'è nessuna retorica in questo. Intendo un cambiamento pratico. Togliamo dal
nostro vocabolario le parole "straniero", "immigrato",
"clandestino" (in quanto parole purtroppo ultimamente connotate solo
in senso negativo) e sostituiamole con i più semplici, ma molto efficaci, "uomo"
e "donna", "bambino" e "bambina". Per fare un
esempio: una frase del tipo "Sai cara, nella classe di mio figlio ci sono
15 italiani e 10 stranieri" diventa "Sai cara, nella classe di mio
figlio ci sono 25 bambini". Oppure: "Cari concittadini, le indagini
ISTAT ci dicono che in Italia l’80% della popolazione è italiana e il 20%
composta da stranieri" diventa "Cari concittadini, le indagini ISTAT
ci dicono che in Italia la popolazione è composta al 100% da uomini e
donne".
Che
dite? Fa tutto un altro effetto, non vi sembra?
Ecco
da dove parte l'integrazione: parte dalle piccole cose, dai piccoli gesti di
accoglienza personale e non pubblicizzata o, peggio ancora, politicizzata.
Parte dal chiamare le persone col proprio nome e basta, senza dare loro
un'etichetta a tutti i costi. L'integrazione è riconoscere l'altro come
diverso, ma accettarlo come uguale a me. E' dire a tuo figlio che non c'è
nessuna differenza tra lui e il suo compagno, chiunque esso sia. E' fermarsi a
parlare con le altre mamme fuori da scuola, con le persone dentro nei negozi,
senza stare a guardare di che colore è la loro pelle. E' dare calore (e non
solo lavoro!) a chi ne ha bisogno, cioè tutti. L'integrazione è conoscersi in
profondità, è conoscere ogni persona singola e non il gruppo etnico a cui appartiene.
Detto questo, forse potrà sembrare strano che la mia proposta riguardi proprio
le parole, un cambiamento radicale nel linguaggio. Ma ci sono almeno due
motivi.
Innanzitutto
cambiare modo di parlare significa cambiare modo di pensare, perché pensiero e
linguaggio sono fortemente connessi. Forse questo non è immediato, ma pensandoci
un attimo possiamo capire meglio. Dire “16 italiani e 4 stranieri” significa
pensare che c’è una così grande diversità che sentiamo il bisogno di
specificare questa differenza. Dire, invece, “20 bambini” significa pensare che
le differenze che ci sono non sono così importanti per descrivere quel gruppo.
Un altro esempio di quanto linguaggio e pensiero siano connessi: per ricordare
meglio le cose (quindi per metterle nel nostro pensiero) non ci è più comodo
ripeterle a voce più volte? O ancora, non è vi mai capitato di “parlare tra sé
e sé”, cioè di pensare dentro di voi come se steste parlando, quando dovete
ragionare?
Il
secondo motivo è di tipo sociale. Sappiamo che ci costruiamo la nostra identità
in base a come gli altri ci vedono. Proviamo e pensare agli altri come a degli
specchi. Il loro riflesso è il loro modo di vederci: se gli altri hanno di noi
un’idea positiva ce la trasmetteranno e noi ci sentiremo positivi, ma se hanno
un’idea negativa, noi ci sentiremo sbagliati, diversi e non accettati. Ecco
perché è importante cambiare il nostro modo di parlare. Dicendo “stranieri” noi
esprimiamo il pensiero che loro siano diversi, che non siano al loro posto (o,
come si dice, al loro paese!) e che debbano anche starci un po’ a distanza per
non mischiarci troppo. Dicendo, invece, “uomini e donne” pensiamo che in fondo
anche loro siano uomini e bambini come noi, che abbiamo delle diversità ma che
non ci impediscono di stare insieme e di vivere vicini.
Tutto
questo nostro ragionamento trova un muro quando assistiamo a scene di violenza,
di stupro, di rapine e di uccisioni. Ma ci tengo a dire una cosa: non
generalizziamo. Cerchiamo di superare il pregiudizio e guardiamo all’altro per
quello che è. Non giudichiamolo subito. Riserviamoci il diritto di farci
un’idea su di lui solo dopo che lo abbiamo conosciuto personalmente. E allora,
se è un malvivente come tale lo tratteremo, ma se è una persona buona, gentile
e accogliente dovremo essere pronti a dire “scusa, mi sbagliavo su di te” e
cominciare a costruire qualcosa che sia più di un giudizio. E questo nuovo modo
di guardare il mondo ci farà stare meglio: saremo meno terrorizzati e
spaventati da chi ci circonda, scopriremo di vivere in un mondo che in fin dei
conti ci fa provare molte più esperienze positive che negative e, guardano gli
altri con meno pregiudizio, saremo a nostra volta guardati con più affetto e ci
sentiremo ben voluti.
Dott.
Marco Bernardi
Psicologo
Milano
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