giovedì 20 marzo 2008

È tutto oro quello che luccica?

La lettura di due libri usciti tra il 2003 e il 2004 apre la mente ad una serie di importanti considerazioni sul significato del termine scienza e sull’effettiva indipendenza intellettuale di quanti conducono la ricerca scientifica.

È ovviamente da evitare qualsivoglia generalizzazione e non devono essere dimenticati o sottaciuti gli sforzi, talvolta titanici, effettuati da quanti con dedizione e competenza assicurano il costante progresso scientifico.

Al contempo però, è utile soffermarsi a riflettere sui dati che emergono, tra gli altri, dalle analisi effettuate dagli autori di questi due libri (A. Liberati1 e M. Bobbio2) e sulla denuncia da loro effettuata in merito alla dipendenza di buona parte della ricerca scientifica dai fondi assicurati dalle case farmaceutiche e dagli interessi commerciali a questi collegati.

Lo stesso Ministero della Salute (Sperimentazione Clinica dei medicinali in Italia. 3° Rapporto Nazionale. Osservatorio nazionale sulla sperimentazione clinica dei risultati) ha pubblicato nel Dicembre 2003 alcuni dati che segnalano come la ricerca scientifica in ambito medico sia prevalentemente nelle mani dell’industria farmaceutica (su 1899 sperimentazioni approvate dai comitati etici locali nel corso del 2003, 1474 [78%] sono sostenute dall’industria farmaceutica, 144 [8%] da IRCCS pubblici o privati, 163 [9%] da ASL o aziende ospedaliere, 70 [4%] da associazioni scientifiche e 32 [2%] da università). Ed è ormai noto come le ricerche scientifiche così finanziate (e sulle quali si fonda spesse volte il paradigma alla base della Medicina Basata sulle Evidenze) siano caratterizzate da una pressoché nulla “incertezza” sui risultati (Djulbegovic B. et al., “The uncertainty and industry sponsored research”, Lancet 2000;356:635-8) ed, al contrario, da una maggiore probabilità di ottenere risultati favorevoli nei confronti del farmaco oggetto di studio (Bhandari M. et al., “Association between industry funding and statistically significant pre-industry findings in medical and surgical randomized trials”, Can Med Ass J 2004;170:477-80).

Ne consegue la messa in commercio e l’utilizzo in terapia di una quantità di medicinali che nel tempo mostrano i loro effetti dannosi, determinando drammatiche conseguenze per la salute dei pazienti o, nella migliore delle ipotesi, lo sperpero delle scarsissime risorse per l’utilizzo di principi attivi più costosi ma certo non più efficaci. Alcuni esempi noti in letteratura scientifica sono i casi della Levotiroxamina (Dong B., “Bioequivalence of generic and brand name levothyroxine products in the treatment of hypothyroidism”, JAMA 1997;277:1205-13) o del Verapamil (Psaty BM et al., “Stopping medical research to save money. A broken pact with researchers and patients”, JAMpA 2003;289:2128-31). Qualche altra curiosa indicazione sull’argomento potrebbe essere tratta da parecchi altri lavori, tra i quali ne segnalo due pubblicati sul Lancet: Langer A. et al., “Early stopping trials”, Lancet 1997;350:890-1 e “A curious stopping rule from Hoechest Marion Roussel”, Lancet 1997; 350:155.

Peraltro nel 2004 un’indagine ha dimostrato che un farmaco funziona soltanto nel 40% dei pazienti. In un ulteriore 20% funzionerebbe ma gli effetti collaterali patiti dai pazienti sono tali da costringerli ad interrompere la cura. Nel 30% dei casi il farmaco non funziona affatto, producendo soltanto effetti collaterali e nel 10% i pazienti non hanno né effetti terapeutici né effetti avversi. (Ufficio Studi IBM- Il Sole 24 Ore, maggio 2004).

Riportando queste osservazioni nel mondo omeopatico, potrebbero dedursene alcune considerazioni:

  1. la ricerca scientifica rimane pur sempre uno strumento indispensabile per giungere ad una maggiore conoscenza dei meccanismi d’azione dei medicinali omeopatici e per dimostrare la loro efficacia terapeutica;

  2. alcuni criteri di scientificità oggi imposti dalla comunità scientifica (randomizzazione in doppio cieco) non possono essere agevolmente utilizzati dal mondo omeopatico, in quanto contrastano con la stessa metodologia di approccio per l’individuazione della terapia omeopatica più corretta (basata sulla più profonda individualizzazione);

  3. la carenza di fondi destinati alla ricerca, già così sentita da parte del mondo scientifico “allopatico”, è ancora più significativa per il mondo “omeopatico”;

  4. non sempre la qualità delle ricerche scientifiche del mondo “allopatico” pubblicate, anche da parte di riviste particolarmente note e ad elevato impact factor, è così cristallina e aderente al gold standard, nonostante vengano assunte come base di riferimento della Evidence Based Medicine. Ciononostante, anzi a maggior ragione, è sempre più necessaria l’attenzione dei ricercatori in campo omeopatico al fine di evitare facili, quando non strumentali, attacchi da parte del mondo scientifico;

  5. purtroppo non sempre è dato riscontrare un’analoga attenzione del mondo scientifico sulle ricerche finanziate da case farmaceutiche “allopatiche” e sull’indipendenza intellettuale di alcuni ricercatori.

1 “Etica, conoscenza e sanità – Evidence-based medicine fra ragione e passione” – A. Liberati – Il Pensiero scientifico Editore – Roma 2005

2 “Giuro di esercitare la medicina in libertà e indipendenza – Medici e industria” – M. Bobbio – Einaudi – Trento 2004

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