domenica 7 ottobre 2018

Challenge autolesive, cosa spinge i nostri ragazzi a farsi male per gioco?




È di qualche settimana fa la notizia di un ragazzo morto a causa di una “sfida” che lo vedeva coinvolto con altri coetanei online. Si chiamano “challenge” e hanno lo scopo di mettersi in qualche modo alla prova, testimoniare con video o foto di aver superato una sfida per poi postare tutto online. Sono frequenti le notizie di sfide autolesive diffuse online in cui il “gioco” consiste nel farsi del male, nel ferire il proprio corpo e nei modi più disparati. Purtroppo in alcuni casi tutto questo porta alla morte, ma sarebbe sbagliato pensarle come a dei modi per togliersi la vita. Gli studi, soprattutto nel campo psicoanalitico, ci dicono che è certo che chi si ferisce lo fa per un motivo che ha poco o nulla a che fare con l’idea di togliersi la vita. I motivi sono profondi, riguardano il rapporto con il proprio corpo, con gli aspetti inconsci della persona.
In particolare Lemma (2010) sostiene che l’autolesionismo assolva alcuni compiti inconsci come negare la separazione o la perdita (mi rifiuto di accettare la perdita di una relazione che prima avevo e che ora non ho più); coprire un corpo vissuto con vergogna o attaccarlo perché vissuto come estraneo; tentare una separazione (se mi taglio, “taglio” anche un cordone ombelicale che mi opprime); affrontare un senso interno di frammentazione. E tutto questo può riguardare da vicino un adolescente, impegnato com’è nell’affrontare quei compiti evolutivi che riguardano la separazione e la definizione di sé, la mentalizzazione del proprio nuovo corpo sessuato e la costruzione di un’identità coesa. Un atto autolesivo può trasformare una sofferenza psichica in fisica, in modo da poterla tenere sotto controllo, può essere vissuto come un modo per punire una parte di sé che si considera cattiva (pensieri, sentimenti e emozioni inaccettabili), può essere il modo per “comunicare senza parole” dove il gesto funge da linguaggio per trasmettere quello che a parole non si riesce a dire (cfr Rossi Monti &D’Agostino, 2009). Tutto questo amplificato dalla potenza mediatica di internet che rende il gesto pubblico e visibile a chiunque. Forse questo è il punto centrale quando si ha a che fare con gli adolescenti: non limitiamoci a stigmatizzare il gesto, considerandolo fuori dagli schemi (“a mio figlio non succederà mai”) e non spaventiamoci a tal punto da allontanare anche il solo pensiero (“oddio, allora sicuramente mio figlio si farà del male, togliamogli lo smartphone”). Apriamo o riapriamo il dialogo con i nostri figli e i nostri adolescenti. Ascoltiamoli sempre con curiosità e stiamo loro vicini, rispettando i loro spazi ma non abbandonandoli a loro stessi. Parliamo con loro della loro vita virtuale, mostriamoci interessati. Non tanto per controllarne in modo quasi investigativo messaggi e chat ma per parlare con loro di temi come il rispetto, la privacy, l’intimità, il corpo, l’indipendenza, tutte questioni centrali nella crescita adolescenziale che vengono nettamente ridefinite all’interno dell’ambiente virtuale. Online e offline non sono vite parallele. Prendiamoci cura di entrambe, sia delle loro che delle nostre.

Dott.Marco Bernardi
Psicoterapeuta 
Milano 

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