È di qualche settimana fa la notizia di un ragazzo morto a
causa di una “sfida” che lo vedeva coinvolto con altri coetanei online. Si
chiamano “challenge” e hanno lo scopo di mettersi in qualche modo alla prova,
testimoniare con video o foto di aver superato una sfida per poi postare tutto
online. Sono frequenti le notizie di sfide autolesive diffuse online in cui il
“gioco” consiste nel farsi del male, nel ferire il proprio corpo e nei modi più
disparati. Purtroppo in alcuni casi tutto questo porta alla morte, ma sarebbe
sbagliato pensarle come a dei modi per togliersi la vita. Gli studi,
soprattutto nel campo psicoanalitico, ci dicono che è certo che chi si ferisce
lo fa per un motivo che ha poco o nulla a che fare con l’idea di togliersi la
vita. I motivi sono profondi, riguardano il rapporto con il proprio corpo, con
gli aspetti inconsci della persona.
In particolare Lemma (2010) sostiene che l’autolesionismo
assolva alcuni compiti inconsci come negare la separazione o la perdita (mi
rifiuto di accettare la perdita di una relazione che prima avevo e che ora non
ho più); coprire un corpo vissuto con vergogna o attaccarlo perché vissuto come
estraneo; tentare una separazione (se mi taglio, “taglio” anche un cordone
ombelicale che mi opprime); affrontare un senso interno di frammentazione. E
tutto questo può riguardare da vicino un adolescente, impegnato com’è
nell’affrontare quei compiti evolutivi che riguardano la separazione e la
definizione di sé, la mentalizzazione del proprio nuovo corpo sessuato e la
costruzione di un’identità coesa. Un atto autolesivo può trasformare una
sofferenza psichica in fisica, in modo da poterla tenere sotto controllo, può
essere vissuto come un modo per punire una parte di sé che si considera cattiva
(pensieri, sentimenti e emozioni inaccettabili), può essere il modo per
“comunicare senza parole” dove il gesto funge da linguaggio per trasmettere
quello che a parole non si riesce a dire (cfr Rossi Monti &D’Agostino,
2009). Tutto questo amplificato dalla potenza mediatica di internet che rende il
gesto pubblico e visibile a chiunque. Forse questo è il punto centrale quando
si ha a che fare con gli adolescenti: non limitiamoci a stigmatizzare il gesto,
considerandolo fuori dagli schemi (“a mio figlio non succederà mai”) e non
spaventiamoci a tal punto da allontanare anche il solo pensiero (“oddio, allora
sicuramente mio figlio si farà del male, togliamogli lo smartphone”). Apriamo o
riapriamo il dialogo con i nostri figli e i nostri adolescenti. Ascoltiamoli
sempre con curiosità e stiamo loro vicini, rispettando i loro spazi ma non
abbandonandoli a loro stessi. Parliamo con loro della loro vita virtuale,
mostriamoci interessati. Non tanto per controllarne in modo quasi investigativo
messaggi e chat ma per parlare con loro di temi come il rispetto, la privacy,
l’intimità, il corpo, l’indipendenza, tutte questioni centrali nella crescita
adolescenziale che vengono nettamente ridefinite all’interno dell’ambiente
virtuale. Online e offline non sono vite parallele. Prendiamoci cura di
entrambe, sia delle loro che delle nostre.
Dott.Marco Bernardi
Psicoterapeuta
Milano
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