Per molte donne la vita procreativa fin dall'inizio si
presenta travagliata e conflittuale, caratterizzata da una forte ambivalenza
tra paura e desiderio di diventare madre.
I ripetitivi aborti spesso rappresentano una sorta di
difesa, sia contro la minaccia incombente legata alla maternità che spesso
colpisce a livello trans generazionale più donne della stessa famiglia, sia contro l’intensa
riattivazione di vissuti conflittuali provati nell'utero della propria madre e
iscritti nel proprio inconscio.
Le gravidanze portate a termine dopo uno o più aborti,
spesso sono condizionate da questi eventi che le hanno precedute, sia per
quanto riguarda la qualità dell’investimento sul bambino, sia per l’intensità con
cui la donna vive la depressione post partum.
Infatti nelle difficoltà a portare avanti una gravidanza si
celano conflitti profondi, onto e filogenetici che, di solito, non vengono
elaborati in seguito all’aborto. In base alla loro entità, la riattivazione di
tali conflitti può diventare la causa di una infertilità secondaria, o essere
abreagita senza compromettere la capacità procreativa, come capita quando all’aborto/i
segue la nascita di un bambino.
Tuttavia, anche se la gravidanza giunge felicemente a
termine, la donna deve affrontare, nel post partum, oltre alle difficoltà legate
alla separazione dal bambino, anche quelle per cui la realizzazione del suo desiderio
aveva trovato degli impedimenti. Il puerperio infatti porta a galla gli aspetti
profondi legati al desiderio di maternità e alla conflittualità con cui è stato vissuto, proprio quella che aveva causato gli
aborti.
In vari casi infatti ho seguito in psicoterapia donne che,
avendo trascurato il malessere provato dopo uno o più aborti, non potevano più ignorarlo
quando si presentava in modo particolarmente intenso dopo la nascita del
bambino: i sintomi erano diventati così dolorosi e invalidanti da dover essere
finalmente presi in considerazione.
Se la loro elaborazione fosse avvenuta dopo il primo
aborto, probabilmente avrebbero evitato le sofferenze procurate sia da quelli
successivi sia dal distacco del bambino avvenuto con il parto, ma soprattutto,
i loro bambini avrebbero avuto un rapporto diverso con la mamma già a partire
dalla vita intrauterina.
La psicoprofilassi infantile infatti
dovrebbe iniziare prima del concepimento, attraverso la preparazione di un “ambiente
materno” meno conflittuale, dunque più adatto a ospitare prima un embrione /feto, poi a occuparsi di un
neonato.
D.ssa Marcella Marcone
Psicoanalista-psicoterapeuta
con esperienza in campo ostetrico-ginecologico
Milano
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