A fronte della curiosità e delle perplessità emerse in quel frangente, si è sviluppata negli anni successivi una ricca letteratura nettamente divisa tra i sostenitori e gli osteggiatori di questa ipotesi di lavoro. Indubbiamente la tesi suggerita da Benveniste e dai suoi numerosi colleghi apriva a scenari fino ad allora non accettati e non sostenibili con le moderne acquisizioni scientifiche, consentendo ipotesi di lavoro per successivi studi interpretabili in alcuni casi come rivoluzionari.
Si giustifica in questa maniera la particolare attenzione del mondo scientifico e dei media, e l’ovvia sensibilità mostrata su questo tema dal mondo omeopatico che riteneva di iniziare ad intravedere una risposta plausibile ai numerosi dubbi sul meccanismo d’azione delle alte diluizioni (vero cavallo di battaglia degli avversatori di questa metodica clinico-terapeutica).
Immediatamente dopo la pubblicazione di questo lavoro abbiamo assistito ad una violenta reazione da parte del fronte degli oppositori, che hanno ottenuto una seria revisione dell’esperimento imponendo addirittura nel nuovo gruppo di lavoro la presenza di esperti in pratiche occulte e in frodi scientifiche.
Non si può negare che gli studi pubblicati su Nature presentavano evidenti vizi concettuali e metodologici, come in seguito emerso anche con gli accertamenti effettuati e come evidenziato da parte degli stessi co-autori. Al riguardo, appare oggi particolarmente interessante la lettura delle Lettere all’Editore, pubblicate sul numero 97 di Homeopathy (scaricabile dal blog di Amico), attraverso le quali si cerca di fare qualche chiarezza su quell’episodio e sulle prospettive che comunque quegli studi potrebbero ancora mantenere.
In particolare B. Poitevin e F. Beauvais, che hanno partecipato agli studi di Benveniste e ne hanno condiviso la pubblicazione, evidenziano come già nel corso dei numerosi anni di sperimentazione che hanno preceduto l’uscita del numero di Nature erano emerse diverse criticità che aprivano dubbi interpretativi sulla riproducibilità dei dati. Vi era in sostanza il dubbio che determinati risultati fossero in qualche maniera involontariamente influenzati dallo sperimentatore o dalle condizioni fisiche dello stesso laboratorio nel quale si teneva lo studio. Basterebbe al riguardo ragionare sulla notevole quantità di impurità “comunque” presenti all’interno dell’acqua (o di un solvente qualsiasi).
Non volendo entrare nel merito scientifico della polemica, per il quale rimando alle più qualificate letture che vengono citate anche a margine delle lettere pubblicate su Homeopathy, vorrei però esprimere qualche considerazione da “utilizzatore del farmaco omeopatico” e non già da fine ricercatore:
in primo luogo rimango sorpreso dal ruolo avuto da un’importante rivista scientifica come Nature, acclamata e riconosciuta a livello internazionale. Come è stato possibile consentire la pubblicazione di studi che presentavano così evidenti vizi concettuali e di forma? Per quali ragioni i referee della rivista non hanno da subito sollevato tutte le perplessità che hanno determinato immediatamente dopo la loro presa di distanza? Siamo tutti consapevoli di quanto sia complesso ottenere l’autorizzazione alla pubblicazione di uno studio (tanto più così controverso) su una rivista di tale fama. Se non fossi assolutamente convinto della serietà professionale e dell’onestà intellettuale di quanti hanno valutato preventivamente questa pubblicazione, sarei portato a concludere che l’autorizzazione sia stata assicurata proprio al fine di scatenare tutte le successive reazioni.
È assolutamente importante assicurare la massima serietà degli studi pubblicati ed è auspicabile che “sempre” il mondo scientifico si interroghi sui risultati pubblicati e, partendo dal necessario presupposto della serietà professionale e della deontologia degli autori, analizzi criticamente, anche in maniera estremamente severa, ogni singola pubblicazione. È altresì comprensibile e giustificabile che particolare severità ed approfondimento siano dedicati a pubblicazioni riferite alle medicine complementari (e all’omeopatia in particolare), che ancora tanta strada devono fare verso l’obiettivo del rispetto dei canoni di scientificità e della ripetibilità dei risultati ottenuti. Non saranno certo i tantissimi seri professionisti che si impegnano nel campo dell’omeopatia ad accettare un abbassamento della guardia sulla qualità degli studi pubblicati. Sarebbe peraltro auspicabile che analoga seria revisione critica fosse assicurata anche a “tutte” le altre pubblicazioni mediche, individuando regole certe che garantiscano la piena trasparenza delle ricerche e dei risultati ottenuti e l’indipendenza economica dei ricercatori (che andrebbero necessariamente posti al riparo dagli interessi commerciali). Abbiamo purtroppo numerosi esempi che contrastano questo auspicio.
Con l’avvento dell’Evidence Based Medicine i medici si sono abituati a ragionare in termini di evidenza delle prove scientifiche e di verifica dei risultati. L’approccio al paziente deve necessariamente fare riferimento a tutti i mezzi messi a disposizione dalla scienza medica, selezionati utilizzando i criteri ricercati mediante adeguate prove di efficacia. L’esperienza dimostra che non tutto è così facilmente codificabile e irreggimentabile: sono già numerosi gli esempi di eccezioni ammesse dalla comunità scientifica e numerose sono le critiche mosse al sistema dell’EBM (attualmente in fase di revisione). Il mondo omeopatico è caratterizzato da una difficoltà metodologica ad adeguarsi ai criteri di scientificità attualmente imposti, e deve pertanto affrontare lo sforzo di produrre le necessarie evidenze. Ogni serio medico omeopata valuta peraltro quotidianamente, al riparo del proprio studio, la qualità delle terapie proposte e l’efficacia del proprio approccio … nell’attesa della definizione di controversie scientifiche quali quella della “memoria dell’acqua” o della pubblicazione delle “necessarie” evidenze.
Giorgio Di Leone
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