sabato 16 luglio 2016

“Straniero”: un nome, un’identità.

Cari lettori, dalle pagine di questo blog vorrei fare una proposta rivolta a tutti. La proposta è questa: cambiamo il nostro modo di parlare degli stranieri. Non c'è nessuna retorica in questo. Intendo un cambiamento pratico. Togliamo dal nostro vocabolario le parole "straniero", "immigrato", "clandestino" (in quanto parole purtroppo ultimamente connotate solo in senso negativo) e sostituiamole con i più semplici, ma molto efficaci, "uomo" e "donna", "bambino" e "bambina". Per fare un esempio: una frase del tipo "Sai cara, nella classe di mio figlio ci sono 15 italiani e 10 stranieri" diventa "Sai cara, nella classe di mio figlio ci sono 25 bambini". Oppure: "Cari concittadini, le indagini ISTAT ci dicono che in Italia l’80% della popolazione è italiana e il 20% composta da stranieri" diventa "Cari concittadini, le indagini ISTAT ci dicono che in Italia la popolazione è composta al 100% da uomini e donne".

Che dite? Fa tutto un altro effetto, non vi sembra?
Ecco da dove parte l'integrazione: parte dalle piccole cose, dai piccoli gesti di accoglienza personale e non pubblicizzata o, peggio ancora, politicizzata. Parte dal chiamare le persone col proprio nome e basta, senza dare loro un'etichetta a tutti i costi. L'integrazione è riconoscere l'altro come diverso, ma accettarlo come uguale a me. E' dire a tuo figlio che non c'è nessuna differenza tra lui e il suo compagno, chiunque esso sia. E' fermarsi a parlare con le altre mamme fuori da scuola, con le persone dentro nei negozi, senza stare a guardare di che colore è la loro pelle. E' dare calore (e non solo lavoro!) a chi ne ha bisogno, cioè tutti. L'integrazione è conoscersi in profondità, è conoscere ogni persona singola e non il gruppo etnico a cui appartiene. Detto questo, forse potrà sembrare strano che la mia proposta riguardi proprio le parole, un cambiamento radicale nel linguaggio. Ma ci sono almeno due motivi.
Innanzitutto cambiare modo di parlare significa cambiare modo di pensare, perché pensiero e linguaggio sono fortemente connessi. Forse questo non è immediato, ma pensandoci un attimo possiamo capire meglio. Dire “16 italiani e 4 stranieri” significa pensare che c’è una così grande diversità che sentiamo il bisogno di specificare questa differenza. Dire, invece, “20 bambini” significa pensare che le differenze che ci sono non sono così importanti per descrivere quel gruppo. Un altro esempio di quanto linguaggio e pensiero siano connessi: per ricordare meglio le cose (quindi per metterle nel nostro pensiero) non ci è più comodo ripeterle a voce più volte? O ancora, non è vi mai capitato di “parlare tra sé e sé”, cioè di pensare dentro di voi come se steste parlando, quando dovete ragionare?
Il secondo motivo è di tipo sociale. Sappiamo che ci costruiamo la nostra identità in base a come gli altri ci vedono. Proviamo e pensare agli altri come a degli specchi. Il loro riflesso è il loro modo di vederci: se gli altri hanno di noi un’idea positiva ce la trasmetteranno e noi ci sentiremo positivi, ma se hanno un’idea negativa, noi ci sentiremo sbagliati, diversi e non accettati. Ecco perché è importante cambiare il nostro modo di parlare. Dicendo “stranieri” noi esprimiamo il pensiero che loro siano diversi, che non siano al loro posto (o, come si dice, al loro paese!) e che debbano anche starci un po’ a distanza per non mischiarci troppo. Dicendo, invece, “uomini e donne” pensiamo che in fondo anche loro siano uomini e bambini come noi, che abbiamo delle diversità ma che non ci impediscono di stare insieme e di vivere vicini.
Tutto questo nostro ragionamento trova un muro quando assistiamo a scene di violenza, di stupro, di rapine e di uccisioni. Ma ci tengo a dire una cosa: non generalizziamo. Cerchiamo di superare il pregiudizio e guardiamo all’altro per quello che è. Non giudichiamolo subito. Riserviamoci il diritto di farci un’idea su di lui solo dopo che lo abbiamo conosciuto personalmente. E allora, se è un malvivente come tale lo tratteremo, ma se è una persona buona, gentile e accogliente dovremo essere pronti a dire “scusa, mi sbagliavo su di te” e cominciare a costruire qualcosa che sia più di un giudizio. E questo nuovo modo di guardare il mondo ci farà stare meglio: saremo meno terrorizzati e spaventati da chi ci circonda, scopriremo di vivere in un mondo che in fin dei conti ci fa provare molte più esperienze positive che negative e, guardano gli altri con meno pregiudizio, saremo a nostra volta guardati con più affetto e ci sentiremo ben voluti.

Dott. Marco Bernardi
Psicologo

Milano

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